(Insieme in Europa, Villa Lubin, Roma 1 aprile 2019)
Se bastassero i simboli a rivitalizzare le coscienze sarebbe sufficiente trasformare Ventotene
da isola del confino fascista e del Manifesto a sede della prossima e auspicabile costituente
europea. D’altronde Maastricht chi la conosceva prima del Trattato? Oggi è un polo
importante di studio del diritto comunitario e molti ragazzi italiani vanno lì a cercare una
specializzazione che gli valga un passaporto per l’Europa. Ma i simboli non bastano se non si
ha una storia condivisa.
Siamo al sessantaduesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma che istituirono la
Comunità economica europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia atomica (CEEA).
Rispetto al Trattato della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) i trattati di
Roma contenevano tre affermazioni importanti: il carattere irreversibile dei processo di
integrazione comunitaria, il ruolo della Comunità per garantire la pace non solo fra Germania
e Francia ma in tutto il continente e come modello a livello internazionale, l’obiettivo di una
prosperità condivisa fra i popoli che ne avrebbero fatto parte. Qualcosa si è fermato. I trattati
di Roma hanno segnato tuttavia una regressione rispetto a quello di Parigi della Ceca, perché
il ruolo dei governi nazionali è ormai diventato preponderante rispetto a quello della
Commissione e perché il raggiungimento della prosperità condivisa è stato di fatto totalmente
ceduto in modo esclusivo all’economia di mercato e alla leva monetaria nell’eurozona.
Per quasi trent’anni, nonostante il crescere delle sfide a livello europeo e internazionale e gli
evidenti difetti del connubio fra il preponderante metodo intergovernativo e il decrescente
ruolo del metodo comunitario a cui si era aggiunta nel 1979 l’elezione a suffragio universale e
diretto di un Parlamento, con poteri quasi esclusivamente consultivi, i trattati di Roma sono
stati considerati non modificabili dai governi nazionali. Ingessati nelle dinamiche ieri
nazionali e oggi nazionaliste.
E’ noto che questo tabù fu rotto dal Parlamento europeo con il progetto di Trattato del 1984
ma la risposta dei governi – che si consideravano e si considerano padroni dei trattati – fu il
modesto Atto unico, come definito da Pier Luigi Dastoli. Da allora le sfide continentali e
mondiali sono cresciute, in soli trent’anni abbiamo assistito al crollo del Muro di Berlino, alla
nascita dell’Unione Monetaria e dell’euro, all’avvento della globalizzazione e alla prima
grande crisi finanziaria dell’Ue. Tutto ciò in una situazione in cui si è resa irreversibile
l’interdipendenza economica, finanziaria, sociale, ambientale e culturale. Sono così aumentate
le pulsioni contro il multilateralismo e è diventato insopportabile nell’Unione il peso delle
sovranità nazionali. Tutto si è fermato.
Nessun passo avanti sulla riforma della governance finanziaria, eppure oggi vediamo quanto
servirebbe un ministro del Tesoro unico, l’Unione fiscale e regolamenti bancari che non
violino la nostra Costituzione. Nessuna modifica alla politica dell’accoglienza, ferma al
disimpegno sul ricollocamento dei migranti che di fatto permette a tutti i paesi di avere buoni
motivi per mantenere chiuse le frontiere. Nessuna azione concreta per sollecitare i giovani, gli
unici che possano davvero dare una scossa a quest’Europa polverosa e burocratica, mentre
invece sono relegati, anche nelle prossime elezioni, a pura rappresentanza di genere: uno
studente, un disoccupato, un migrante, una donna magari. Nessun intervento sui piani
scolastici dove si dovrebbe proprio studiare la storia dell’Unione Europea per costruire
l’anima che ci manca.
In un celebre discorso nel 1946 a Zurigo Winston Churchill indicò lo spirito che si doveva perseguire.
‘’Per evitare che tornino le epoche buie c’è un rimedio. E qual è questo rimedio sovrano?’’, si chiese.
‘’Esso consiste nella ricostruzione della famiglia dei popoli europei, o in quanto più di essa possiamo
ricostituire, e nel dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza e in libertà.
Dobbiamo creare una specie di Stati Uniti d'Europa. Solo in questo modo centinaia di milioni di
lavoratori saranno in grado di riconquistare le semplici gioie e le speranze che rendono la vita degna di
essere vissuta. Il procedimento è semplice. Tutto ciò che occorre è che centinaia di milioni di uomini e
donne decidano di fare il bene invece del male e di meritare come ricompensa di essere benedetti invece
che maledetti’’. Sembrava impossibile, ma così è stato.
Si può dire che oggi 500 milioni di europei e soprattutto i loro governi, stanno lavorando nella
stessa direzione? L’Unione di oggi sembra l’Unione delle libertà, dove a parole tutti sono
europeisti ma nei fatti la voglia di tornare agli Stati nazione e ai campioni industriali è tanta.
La Gran Bretagna vuole uscire dall’Ue ma alle sue condizioni perché intende restare nel
mercato unico, evitando il ritorno della questione nordirlandese e magari (colmo dei colmi)
votare pure alle elezioni europee. La Germania ha piegato i Pigs, ci ha guadagnato dalla
dittatura dello spread e persino dal QE e dal salvataggio della Grecia, ma ora che c’è da
puntellare la sua prima banca, bypassa il bail in imposto invece all’Italia per piccoli istituti di
credito e crea un nuovo polo Commerz-Deutsche Bank a trazione addirittura pubblica. Se lo
avesse solo pensato l’Italia, sarebbe arrivata subito la troika.
Il copione dell’Unione delle Libertà va avanti con la Francia, europeista a parole con
Emmanuel Macron ma fortemente nazionalista neo fatti e una larga parte dei paesi dell’Est
che si mostrano sempre più allergici ai diritti ma non certo all’incasso dei lauti fondi
comunitari. Di cui godono per la propria parte anche Olanda, Lussemburgo e Irlanda e
Austria, paradisi fiscali in terra d’Europa più o meno larghi. Se il Trattato di Roma viene
usato à la carte come un menu qualsiasi, viene da chiedersi se ha senso crederci ancora o se
non è meglio tenersi il mercato unico ben stretto e riporre per sempre nello scaffale della
storia il Manifesto di Ventotene e tutte le altre bibbie federaliste.
Eppure. Ad aver il coraggio di Churchill di cose da fare ne sarebbero. In quattro tempi:
Costituente, Difesa e Ambiente, Riforme e Formazione. Innanzitutto i partiti europei e quelli
nazionali nei paesi dell’Eurozona devono assumere nei loro programmi un preciso impegno
per redigere nel nuovo Parlamento eletto la Costituzione di una futura Comunità federale, che
sia poi approvata attraverso un referendum popolare pan-europeo, dove vengano sanciti i
valori essenziali dello stato di diritto: la supremazia della legge, l’eguaglianza, il pluralismo
dell’informazione, la separazione dei poteri, i diritti fondamentali, le diversità culturali.
Nell’ambito di queste identità serve con la massima urgenza una politica europea per le
migrazioni che garantisca il diritto di asilo e obblighi gli Stati membri ai doveri d’accoglienza,
rinnovando la cooperazione con l’Unione Africana e la Lega Araba e promuovendo un vero
piano europeo di investimenti. Sul fronte invece della sicurezza interna dei cittadini,
occorre creare una dimensione europea nella lotta alla criminalità organizzata, alla corruzione
e al terrorismo transnazionali, gettando le basi di un diritto penale europeo, rafforzando i
poteri della Procura europea e creando un’Agenzia di intelligence comune, un Fbi europeo. Il
tutto, ovviamente, non può reggere senza una politica estera unica, che sia fondata su una sola
voce dell’UE nelle sedi internazionali e sul voto a maggioranza nel Consiglio.
Dal punto di vista industriale, occorre recuperare il terreno perduto. Bisogna attuare
pienamente gli obiettivi delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile e affrontare nello
stesso tempo i problemi della digitalizzazione e dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, che
potrebbero avere effetti devastanti sull’occupazione. In un mondo in cui i nuovi monopoli
digitali fatturano più di un intero grande paese, godendo anche di paradisi fiscali nella stessa
Eurozona, l’azione riformista dei prossimi vertici comunitari non potrà poi prescindere
dall’istituzione di forme di tassazione europea degli over the top, dall’unione fiscale e dal
completamento dell’unione bancaria, che non lasci soli i clienti di fronte ai fallimenti del
mercato. Sempre in questo contesto, il Mercato Unico deve poter contare su strumenti
antitrust nazionali ed europei indipendenti e rafforzati, che garantiscano i diritti di 500 milioni
di consumatori. Ma imprescindibile resta su tutto il versante economico il tema delle
disuguaglianze. E’ urgente adottare politiche e misure europee per superare gli strumenti
economici e finanziari adottati nell’UE dall’inizio della crisi, creare un welfare europeo e un
mercato unico del lavoro, insomma un Social compact che si contrapponga al Fiscal
Compact. E per rendere più sicuri i cittadini e i risparmiatori, va dato uno Stato all’euro. Di
fronte ai grandi sconvolgimenti della globalizzazione, la politica monetaria della Bce non
basta più. È essenziale che l’UEM sia dotata di un vero e proprio governo politico ed
economico: dunque occorre creare degli strumenti finanziari per assicurare una prosperità
condivisa, costituire un Ministero Unico del Tesoro che emetta Eurobond, ipotizzare anche
strumenti di imposizione europea come le transazioni finanziarie, che vadano a finanziare
politiche contro la disoccupazione.
Non si può però attuare nulla di questo programma senza radicare nelle fondamenta della
società e tra i giovani il principio di cittadinanza federale attraverso la formazione. Questo
obiettivo può essere raggiunto rendendo obbligatorio nelle scuole di ogni ordine e grado lo
studio dell’educazione civica europea, dei trattati e della futura costituzione europea, mentre
vanno introdotti elementi essenziali di studio del diritto europeo in tutte le facoltà
universitarie. Solo così avrà ancora un senso parlare di Unione di diversità nella libertà.
Solo così daremo uno stato ai cittadini europei.