SETTE IMMAGINI DI TRASFORMAZIONE RIVOLUZIONARIA
di Gianni Vacchelli
L’associazione La Nuova Europa ha siglato una convenzione con la Società Dante Alighieri per la promozione della lingua e della cultura italiana nell’Unione europea. A proposito della modernità e dell’eredità di Dante pubblichiamo un estratto dal volume di Gianni Vacchelli Dante e la selva oscura (https://www.lemmapress.com/it/catalogo/dante-e-la-selva-oscura/199) per gentile concessione dell’editore Lemma Press. Ringraziamo l’autore per l’adattamento del testo alla versione web.
Qual è l’eredità dantesca oggi, per tutti noi, specie se europei? Cos’ha da dirci ancora Dante? Quale la sua ‘attualità inattuale’? E ancora: ha senso rivolgerci (anche) a lui, per uscire dalla ‘selva oscura’ di crisi, di asfissia, di riduzionismo dell’umano nella quale siamo prigionieri?
Evidentemente crediamo di sì, anche se non si tratta tanto di ritornare a Dante, quanto di farsi da lui fecondare, di ripartire da lui, dalle sue geniali e ardite armonizzazioni.
Naturalmente non possiamo mai dimenticarci che l’Europa e l’Italia di Dante in alcun modo possono essere lette con le categorie geopolitiche dell’oggi. Sarebbe un ingenuo anacronismo. Si tratta piuttosto di farsi interpellare dal senso simbolico, dal valore sapienziale, esistenziale che promana dall’avventura dantesca e in particolare dalla Commedia. Ma anche dalla sua istanzaprofetica e critica.
L’attualità dantesca non è solo per l’Europa, né solo per l’oggi: come ogni opera-mondo, la Commedia vive in quello che, con il critico russo Bachtin, potremmo chiamare il ‘tempo grande’, che senza mai negare le ragioni della storia non può essere solo ad esse ridotto. Ma per vedere l’intensità al calor bianco della trasformazione rivoluzionaria di Dante (quasi un ossimoro per tenere insieme il ‘granello di senape’ interiore e l’istanza esteriore di prassi e liberazione), occorre anche essere coscienti del guado nel quale siamo. La schiavitù dalla quale esodicamente liberarsi o nella quale passivamente perdersi. Naturalmente il passaggio che stiamo vivendo non è solo europeo, ma di un’epoca, di una visione del mondo, di uno stato di coscienza. Ci troviamo probabilmente in una cultura terminale, che va radicalmente ripensata e trasformata. Dall’altra il nostro punto di vista qui è legato anche alla peculiare situazione dell’Europa. Necessari quindi lo zoom, e la contestualizzazione nell’oggi.
L’eclisse del sogno europeo
Ebbene, il grande sogno di un’Europa unita, comunitaria appare ogni giorno più lontano, per non dire oscuro, contraddittorio, di fatto pervertito. La Comunità Europa si è trasformata in Unione Europea: le parole in questo caso non tradiscono: dire comunità è sul serio troppo, stanti gli assetti oligarchici, di fatto dittatoriali, che ci sfiniscono. L’Europa unita lo è soprattutto all’insegna di un economicismo ormai assolutizzato. Economicismo da intendersi come pervertimento dell’economia, come crematistica, come pura espressione di accumulo del capitale. A fortiori l’idea di Europa che ne deriva non può che essere violentemente miniaturizzata: il dominio dell’economicismo mette non solo al bando il politico, il sociale, ma anche il simbolico, lo spirituale, l’umano stesso, in una deriva che non può non essere esiziale. Come ci ricorda Simone Weil, «l’Europa soffre di una malattia che è dentro di lei. Ha bisogno di guarigione». Altrove la filosofa parlerà di «sradicamento».
Per affrontare questa violenta crisi che, ricordiamo, non è solo europea, ma di civiltà, abbiamo bisogno, come ci ricorda anche il filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, di due movimenti, apparentemente opposti, ma dall’altra complementari:
a) da una parte dobbiamo ritornare creativamente e criticamente alle radici della nostra civiltà europeo-occidentale, per scoprire come queste radici siano plurime, complesse, di straordinaria ricchezza. Si tratta di entrare, per così dire, nell’interiorità della propria cultura, anche per riscoprirla a un altro livello di profondità e per non accontentarsi dell’attuale assetto monoculturale, che sterilizza le tradizioni europee stesse. Il ritorno è anche critico, fecondato da un’euristica ermeneutica del sospetto, che smaschera l’ideologia, i rapporti di oppressione, e che tiene conto del punto di vista dell’oppresso, della vittima, del ‘piagato’. Si ricordi, a questo proposito, il magnifico passo, dove il Poeta rievoca la sua condizione esistenziale di piagato appunto, che però è anche un punto di vista ‘filosofico-teologico’ e ‘socio-politico-economico’ sulla realtà: «Peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata» (Cv I, iii, 4). Colpisce che nello stesso capitolo Dante parli, autobiograficamente, della «pena […] di povertade»; e della «dolorosa povertade» (Cv I, iii, 3.5). Come insegnano in modi diversi e simili la Bibbia, Marx, la teologia e la filosofia della liberazione, il pauper è un locus teologico-politico-economico cruciale e trasformativo, per denunciare l’iniquità di un sistema, ma di più: per annunciare la vita;
b) l’incontro con il pluralismo radicale delle altre culture, delle altre tradizioni, delle altre religioni. Ogni monocromatismo (culturale, religioso ecc.) è semplicemente un assurdo. Ridurre la realtà a un solo principio-colore è un delitto. Nessuna cultura ha il monopolio della soluzione dei problemi dell’oggi. Fosse anche la nostra, europea, la più illustre, non basta. È necessario un dialogo creativo, e critico. Una mutua fecondazione. Ciascuno ha bisogno dell’altro come di se stesso.
Qui ci soffermiamo soprattutto sul primo movimento, di rivisitazione critica del pluralismo culturale interno, delle ricche radici europee, lasciando sullo sfondo l’altro.
Le radici plurime dell’Europa: per un risveglio
Dicevamo radici plurali dell’Europa – ma si potrebbe dire: di ogni cultura, che è sempre un’intercultura, un crocevia di tradizioni, incontri, scontri, influenze –, e pluralità di ‘Europe’. E in effetti l’Europa occidentale non è quella orientale. L’Europa del Sud non è quella del Nord. L’Europa è il Mediterraneo, ma non lo esaurisce tutto. Se poi ci soffermiamo sull’Europa occidentale, che è anche quella che più riguarda Dante, ecco, certo, le radici greche e latine, come anche cristiane ed ebraiche. Ma oggi siamo chiamati a vedere la realtà intimamente plurale delle radici europee: l’Europa è stata anche influenzata dall’‘elemento’ germanico, come da quello arabo, bizantino e irlandese. Se consideriamo l’Europa tutta, dovremmo anche citare, naturalmente, l’elemento slavo. Ancora la Weil rimpiange l’inabissarsi violento della cultura provenzale,dell’apporto cataro. Accenniamo solo che molte di queste radici sono presenti in Dante e da lui, più o meno evidentemente, onorate. Ci torneremo brevemente dopo.
Questo non significa che tutte le ‘tessere’ del mosaico europeo abbiano la stessa importanza, ma la ricchezza storica, culturale e spirituale che l’Europa custodisce in sé è inestimabile e ancora da valorizzare. L’Europa non può risolvere tutti i problemi odierni, certo. Nessuna cultura ha il monopolio della soluzione della crisi oggi, neppure una così venerabile e ricca quale quella del nostro continente.
Eppure l’Europa è chiamata al risveglio. A riscoprire la vastità del suo sapere e del suo essere, a raccogliere in modo maturo i frammenti, anche eterogenei, che la compongono.
Ma l’Europa non sembra realmente uscita ancora dalle drammatiche vicissitudini del XX secolo. Due guerre mondiali devastanti, due totalitarismi sanguinari e le due spaventose esplosioni atomiche connesse diventano l’emblema del fallimento di una certa politica e cultura europea. Il ridimensionamento storico e politico trascina l’Europa a essere subalterna e ‘spartita’: USA e URSS, e poi solo USA, con l’ombra del colosso cinese sempre più lunga e avvolgente. Il risultato resta lo stesso. Un’Europa non ancora veramente nata, ancora insicura e prigioniera dei fantasmi del passato o dell’american way of life. Un’Europa economicistica e sempre più finanziarizzata, nelle mani del Moloch del capitale e che solo sembra saper dire: «Ai suoi ordini, mio capitale».
Ma è proprio la ricchezza straordinaria dell’esperienza storico-culturale-spirituale del bacino mediterraneo, che non s’identifica con l’Europa, ma che pure ne è un’espressione, a dare speranza.
La riscoperta della radici non è un atto di conservatorismo. La riscoperta che auspichiamo è esistenziale e vitale. Se è vero che le radici non danno fiori e frutti, questi non nascono certo senza radici. Ed ecco ancora Dante.
La trasformazione rivoluzionaria dantesca: sette punti
Abbiamo già accennato alla trasformazione rivoluzionaria intensissima dell’opera e dell’avventura dantesche. Forse però abbiamo monumentalizzato Dante, lo abbiamo, pur se nobilmente, museificato e non ne vediamo più le continue audacie. Potremmo parlare della “rivoluzione del volgare”, del mettere al centro il femminile, che è in primis Beatrice, un femminile umano, ma anche interiore e divino. Qui però vogliamo sottolineare altri tratti trasformativo-rivoluzionari del Poeta, delineandone così un’attualità simbolica, trascendentale (e quindi valida sempre). Ecco un settenario dantesco consegnato idealmente alla nostra Europa, come a ogni uomo nella sua interiorità più segreta:
Il viaggio dantesco è un viaggio dentro le profondità di se stessi, e della realtà tutta. Come il lekleka biblico (“vai verso di te”), il gnothi seauton delfico, il recede in te ipsum senecano e agostiniano, nulla o quasi si comprende della Commedia se non la leggiamo in questa ottica simbolica ed interiore. I regni oltremondani sono meno realtà escatologiche che stati di coscienza, come si ricorda anche nella Epistola a Cangrande (poco importa qui se sia dantesca o meno). Il cammino di Dante va dalla selva oscura, al giardino edenico del Purgatorio fino alla «candida rosa» (Pd XXXI,1) paradisiaca: vale a dire dentro un mistero che ci intride, senza ridursi a noi, qualunque sia il suo nome. Non si tratta solo di un viaggio psicologico o psicoanalitico. L’uomo è triplice: corpo psiche e spirito. La mistica custodisce e onora questa triade, senza mai rinnegare la ragione (Virgilio), ma anche trascendendola (Beatrice, s. Bernardo). È questo l’«intelletto d’amore» che tiene insieme conoscenza e amore. Il cammino passa attraverso morti e resurrezioni: l’ego non è il vero Io! Dante ci parla tanto della divinizzazione dell’umano quanto dell’umanizzazione del divino: la sua mistica è cristica (non solo: cristiana!), quindi aperta a tutti. Il «mi ritrovai» (If I,2) già dice il primato dell’uomo interiore, della perla più preziosa, del granello di senape, dell’invisibile che mi abita, della naturale reale… La Commedia è un risveglio a sé, al Sé, alla realtà tutta, alla Vita, che non muore.
2. La categoria della liberazione e del compimento: dalla miseria alla felicità
In questo senso una categoria centrale della Commedia che Dante ci consegna è la liberazione. Ogni autentico cammino libera. Dove c’è verità c’è libertà e liberazione, e viceversa. Nell’Epistola a Cangrande il fine della Commedia è così descritto: «rimuovere (liberare) i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli alla felicità». La liberazione dantesca è per il compimento, per la felicità, per la pienezza dell’uomo. Se questa antropologia è reale (e lo crediamo), come possiamo accontentarci, ad esempio, di un’epoca che tutto mercifica e, nella fattispecie, di un’Europa schiava dello spread o dei parametri di trattati che come minino andrebbero ridiscussi, radicalmente e democraticamente? Non possiamo accettare un’Europa, malata in se stessa, e scissa dalle sue radici. La liberazione dantesca è tanto un ritrovamento di sé quanto una radicale messa in discussione di un mondo che non corrisponde alla nostra natura reale.
3. La liberazione è spirituale e politica: la catabasi, la lupa e il veltro
Fin dal I canto dell’Inferno Dante genialmente ci descrive un’articolazione tra interiorità e politica, tra mistica e prassi, che resta uno dei lasciti più centrali della sua poesia. Virgilio spiega al Dante-personaggio, smarrito e stretto a tenaglia tra un ritorno rovinoso nella selva e le tre fiere che ne ostacolano il cammino verso il colle, che dovrà tenere «altro viaggio» (v. 91), interiore appunto, che comporta prima una discesa agli inferi, per poi risalire al secondo regno e infine al paradiso. Ancora il dinamismo di liberazione interiore: non risale chi prima non discende in profondità verso la propria natura reale. Ma tale viaggio non è in alcun modo intimismo: l’ultima parte del canto denuncia violentemente le ingiustizie della lupa, dell’avidità che tutto accumula e vuole per sé, e parla di una speranza di liberazione (il veltro, poco importa con chi lo si voglia identificare). La liberazione di Dante è tanto interiore quanto esteriore. Tiene insieme le coordinate della mistica con quelle della giustizia, senza mai alienarsi però nel sociale e nel collettivo. Le invettive contro un’economia che già è violenta non significano certo che Dante prevedesse l’abisso economicistico nel quale siamo precipitati. Eppure la minaccia della lupa, quanto mai cupida e devastatrice, profeticamente e simbolicamente non può non farci pensare oggi al capitalismo neoliberista che ci opprime. Ancora una volta non si tratta di far dire a Dante tutto e di più. Ma non c’è dubbio che le sue pagine, lette nel nostro tempo, anche quello denuncino. Il testo dantesco continua a parlarci hic et nunc, ed è vivo. Uno dei simboli del viaggio dantesco è l’Esodo (cfr. Pg II, 46), ancora una volta cammino mistico e politico, paradigma, per Walzer, di ogni trasformazione rivoluzionaria.
4. Pensare, poetare e vivere per triadi: i tre cerchi, i tre mondi
La genialità dantesca declina in modo radicale l’intuizione trinitaria, che è sì cristiana, ma presente, in modi diversi e simili, forse in ogni tradizione dell’umanità. Si tratta di un pensare e vivere per triadi, che innerva il poema, fin dalla sua struttura. Dante vuole dirci che qualunque riduzione monista o dualista è pericolosa: la realtà non è riconducibile ad un solo principio o al conflitto tra due. Essa piuttosto è relazione, è una tri-unità, a partire dalla relazione radicale che unisce il divino (o, in generale, il mistero) con il cosmico e l’umano. La Commedia è già cosmoteandrica, per dirla con Panikkar. Il divino-il mistero potrà pure essere in cima alla gerarchiama di fatto si presenta sempre costitutivamente legato all’umano e al materiale. Trinitariamenteparlando, è rovinoso pensare che solo l’economia detti le regole. Spiritualità politica ed economia (riportata al suo ruolo etimologico di buon “governo della casa”) sono radicalmente collegate. Senza lo spirituale e il politico non può che esserci tragedia! Il pensare trinitario di Dante non è un astrattismo teologico, ma una lettura in profondità della realtà.
5. Il simbolo dell’Impero come fattore di armonia e pace universale: la croce e l’aquila
Ma vorremo soffermarci anche sul simbolo dell’impero in Dante, per rileggerne una sua attualità che spesso non vediamo più. Non si tratta di descrivere Dante in modo caricaturale come un inguaribile reazionario, sconfitto dalla storia (come se poi la storia avesse sempre ragione e non andasse continuamente riscritta e ripensata). Neppure dobbiamo accettare tutto della ricostruzione di Dante (ad esempio la riabilitazione “totale” del dominio romano, che appare per altro funzionale ad un discorso più ampio), ma sceverarne il portato più nobile. Il simbolo dell’Impero richiama in Dante essenzialmente altro: si tratta di un’entità sovranazionale (mai in alcun modo un imperialismo, un Reich!), una diarchia che onori tanto il potere politico quanto quello spirituale. La relazione è ancora una volta trinitaria: impero politico e istanza spirituale sono adualisticamenteuniti, senza confusione e senza separazione. Solo così può venirne la «pace universale», come Dante dice nel Convivio. Per altro la diarchia dantesca non sopprime al suo interno lingue e soggettività diverse: l’Italia rimane ad esempio il «giardin de lo ’mperio». (Pg VI, 105). Questo sogno dantesco medievale è un’immagine di un’Europa unita sovranazionalmente, che però contiene ed onora le sue singolarità. È universalistica (anche perché teoricamente più grande dell’Europa, non riducibile ad essa) ed insieme concreta, particolare. Non è fondata sul mito del mercato, o solo su una moneta unica (che forse è dir lo stesso), ma su un principio spirituale e unopolitico, ben distinti ma anche collaboranti. Che Dante chiami questi due simboli papato e imperatore, la croce e l’aquila, è legato naturalmente allo spirito del suo tempo. I simboli cambiano e vanno reinventati e rivissuti.
6. Pluralismi danteschi ed Europa dello Spirito: il nobile castello e le ghirlande
Siamo troppo abituati ad un Dante monolitico, graniticamente medievale. Dante però è tanto medievale quanto più grande del suo tempo. È affascinante osservare dunque come l’Europa dantesca, che, sia chiaro, è anche un’Europa dello Spirito, trascendentale e non solo una visione storica, è un arazzo, ordito di fili e colori diversi. Potremmo dire che molte radici europee vi sono onorate. Certo non tutte in modo uguale, e con limiti legati al proprio tempo: ma l’Europa dantesca non è senza Virgilio e la cultura classica, greco-latina; non è senza il frammento germanico e l’influenza bizantina (Dante fu ravennate negli ultimi suoi anni); non è senza le teologie cristiane (che per Dante sono plurali, diverse tra loro: per questo il Poeta arriva a tenere insieme ad es. istanze della Grande Chiesa con il frammento cataro!), ma onora, pur se in modi complessi e più nascosti, l’escatologia islamica, un certo ebraismo mistico (possibili influenze dalla qabbalah sul poema sacro), etc. In Dante si dà un complesso pluralismo inter-intraculturale, certo non privo di tensioni, condizionamenti e contraddizioni, ma reale.
L’Europa di Dante è fatta di poesia, di arte e bellezza, di politica, di teologia, di filosofia, di interiorità e concretezza, come pure gli spiriti magni che abitano il «nobile castello» del limbo o le ghirlande dei beati ben ci ricordano (cfr. If IV, 106ss.; Pg XXII, 97ss.; Pd X, 97ss.; XII, 127ss.). Anche la scienza del tempo non è mai trascurata.
Del resto Dante tiene sempre unite, mirabilmente, storia e meta-storia. I riferimenti concreti alle vicende del tempo convivono, anzi sono assunti da uno sguardo che li integra e trasfigura. Il criterio di realtà dantesco non è solo storico, ma sub specie tempiternitatis. Per questo sono figurazione simboliche geniali e luminose come l’aquila paradisiaca (Pd XVIII) o la candida rosa a consegnarci armonie che vanno sì incarnate nella storia, ma che mai sono puramente immaginarie, quanto piuttosto immaginali, archetipiche e già sussistenti: così a questo livello la storia è anche trascesa, il pagano è beato come il cristiano, l’ebreo o come «l’uom [che] nasce a la riva de l’Indo» (Par XIX, 70-71). E anche l’Europa dello Spirito è già.
7. Gli amanti volanti tra amore, conoscenza e critica
Ma forse ‘l’immagine delle immagini’ non l’abbiamo ancora detta. Anche su questa dobbiamo riallargare l’Europa, rivederla, riconfigurarla. La ‘super-immagine’ è quella di Dante che vola nelle atmosfere, nei cieli, tra le stelle, con Beatrice, amanti chagalliani, tra sguardi ardenti, sfavillii di fiamma e di amore, tra eros e agape. Il trasumanare è la relazione. Come abbiamo immiserito questo amore forse con le nostre proiezioni, come l’abbiamo edulcorato, angelicato, platonizzato senza l’ardore platonico! Forse tutto parte da qui, da questo straordinario amore umano (e divino-cosmico). Come è stato scritto, forse la democrazia comincia a due.
Eccoli allora, Beatrice e Dante, gli amanti d’Europa, come quelli della preistoria, gli amanti di Valdaro. Dobbiamo ancora comprendere l’amore di Dante che voleva essere intimo, interiore, fisico, agapico, erotico, razionale, appassionato, spirituale e politico. La liliale Beatrice è forte come un ammiraglio, è teologa, politologa, profetessa, e dolcissima amante, intelletto d’amore.
Dante è «l’amico mio, / non de la ventura» (If II, 61), ci ricorda Beatrice.
Insieme, in due, è la missione poetica, spirituale, civile e politica. E Beatrice insignisce Dante:
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive. (Pg XXXII, 103-105)
Insieme, nel loro viaggio volante paradisiaco, tutto assumono nell’amore, come nella critica lucida e appassionata. Solo da quel luogo si può vedere:
L’aiuola che ci fa tanto feroci (Pd XXII, 151)
Volando sono gli unici terreni, sognando sono gli unici realisti e svegli, innamorati sono gli unici veramente critici, perdendosi si ritrovano. Conoscendo amano e amando conoscono. Allora tutto può essere riconfigurato: la preistoria, la storia e ciò che ci aspetta, la nuova configurazione che abbiamo davanti…
Se alcune immagini dantesche ci abbagliano, forse altre sue concretizzazioni possono non soddisfarci, e non sembrarci più all’altezza dei tempi. Eppure lo spirito del Poeta ci precede. Dobbiamo ancora diventare contemporanei di Dante.