Sarebbe davvero bello se tutti riconoscessero che le forze che muovono la storia sono le stesse che conducono alla felicità dell’uomo. E se vivessero in modo conseguente. La convinzione di tanti cattolici e, certo, delle centinaia di volontari che prestano la loro opera entusiasta anche al Meeting di Rimini 2018 in fondo è il sogno di tutti: raggiungere la completezza dell’individuo, tenendo alto lo sguardo e rispettando tutte le diversità. Un segno di contraddizione nei tempi che viviamo, che sono quelli in cui è la cronaca a smuovere l’azione della politica e la rabbia a condizionarne l’operato.
La rabbia, fino a qualche tempo fa, era la condizione spesso abituale di molti piccoli imprenditori, strangolati prima dalla crisi poi dai debiti e infine dalla burocrazia. Più di recente e non solo in Italia, questo fiume carsico che si fatica anche a definire sentimento, ha pervaso persone che non hanno un’azienda da mandare avanti, con responsabilità precise di fronte ad altre famiglie e alla società. A volte non hanno proprio un motivo per avercela col proprio Paese o semplicemente con qualcuno. Studenti, impiegati, pensionati, disoccupati. Sono diventati, in un giorno imprecisato della loro vita, tutti arrabbiati. Una rabbia sorda, cieca, che si diffonde a macchia d’olio in tutta Europa, alla ricerca rabdomantica di qualcosa su cui sfogarsi. Le cause, che si tramutano spesso in obiettivi, sono le più disparate: il lavoro, la corruzione, la politica, gli stranieri, gli immigrati, gli ebrei, la razza.
Sostiene Marco Revelli che tutto ciò sia sfociato a un certo punto nel populismo, quello stato d’animo, quella forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società “sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale”. E prive di partiti cui fare riferimento, a destra come a sinistra e al centro, e che siano ancora in grado di interpretare la comunità da cui scaturirono.
In cima alle cause della rabbia c’è spesso un imputato inconsapevole, l’Europa, o meglio l’Unione Europea, accusata di voler unire chi invece rimarca la sua differenza. Troppo diversa, troppo accogliente, troppo esigente, troppo matrigna questa Europa. Troppo democratica addirittura, perché a volte, non sono in pochi a pensarlo, soprattutto tra una parte dei giovani, ci vorrebbe un regime autoritario “per mettere a posto le cose”, proprio come una strada pulita di fresco di mattina serve a pulire la coscienza di tutti i dittatori.
È difficile anche interpretare le radici di questa malattia, di cui soffriamo, ammettiamolo, in tanti. Sicuramente ha il suo ruolo l’aumento delle disuguaglianze e la perdurante vittoria del capitale speculativo sul lavoro e sulla produzione reale. Probabilmente, come alcuni psicanalisti sostengono, anche la Rete, che arriva a modificare la percezione stessa che abbiamo di noi e dei nostri pregiudizi, esaltando le discriminazioni, contribuisce a tirare fuori il peggio di una persona. Ma la psiche e il portafoglio non bastano a spiegare un odio, che non si placa nemmeno davanti a tragedie come il crollo del ponte di Genova. E anche il passato, nel deserto che stiamo attraversando, non ci viene in aiuto nell’indagare su questa età dell’Io che in troppi prevale, sempre, sul Noi.
Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di una riedizione del fenomeno rivoluzionario francese degli Enragés, gli Arrabbiati appunto, i tribuni popolari che galvanizzarono le masse dei sanculotti fra la seconda metà del 1792 e l’autunno del 1793 con la promessa della presa del potere anche dei fattori della produzione, quando furono colpiti e dispersi dalla stessa repressione giacobina. Avversari implacabili di ogni forma di compromesso col passato e con le forze moderate, fautori intransigenti della democrazia diretta e strenui difensori dei salari dei sanculotti, quegli Arrabbiati rappresentarono l’altra faccia della Rivoluzione, quella libertaria e radicalmente egualitaria, popolare nel senso più sanguigno della parola. Ma le somiglianze si fermano alla definizione.
Questa rabbia di oggi non ha infatti nulla di rivoluzionario e non scaturisce nemmeno da una vera rivoluzione. Non ci sono utopie da realizzare, ideologie da concretizzare, società da trasformare, ma solo rancore verso “altri”. In certi casi appare come una rivolta eversiva che nasconde il desiderio nemmeno tanto recondito di sovvertire l’ordine, comunitario o nazionale non importa, imposto dall’alto. Per instaurare un nuovo (dis)ordine, privo di freni inibitori e sprezzante anche delle minime regole democratiche.
Andando al secolo scorso, pervaso da guerre prima e da lotte di libertà poi, non c’è traccia di sentimenti popolari così negativi. Milan Kundera, parlando della primavera praghese, aveva raccontato con filosofia mitteleuropea la voglia dei suoi concittadini di abbattere i muri. “È europeo chi ha nostalgia dell’Europa”, scrisse per spiegare perché la gente era scesa in piazza. Le veniva negata con brutalità questa appartenenza, ma la risposta era nella scoperta dei valori individuali e nella volontà di reclamarli subito. Cominciavano allora le lotte di liberazione dal giogo sovietico, la forza studentesca si faceva rivolta in tutta l’Europa centrale, si ponevano le basi della nascita dell’Unione tra diversi. Un moto identitario pur così forte e potente mai sfociò, con l’eccezione tragica della guerra civile jugoslava e in parte con la rivolta romena, in odio e rancore. Ungheresi e cechi, slovacchi e polacchi, un po’ come i rivoluzionari estremisti francesi, erano al centro di un motore che avrebbe portato milioni di europei a muovere la storia e a raggiungere, decenni più tardi, la loro personale felicità: la conquista della libertà. Senza rabbia, senza violenza verbale, senza prevaricazioni tra uguali, solo con la forza delle idee. Quelle che latitano oggi, forse perché a troppi sembra che non ci sia più nulla da conquistare di così importante. Come se non lo fosse presidiare e continuare secoli di umanesimo e decenni di pace.