Romano Prodi disse che con l’euro si sarebbero dimezzati i costi dei mutui. Era vero. Ma non predisse il raddoppio degli affitti e dei prezzi delle case. E anche di qualche genere di prima necessità come pane, pizza e pomodoro. Da questa enorme discrepanza nasce il dibattito che si trascina con sempre maggiore vigore dal 2002, tra chi si aggrappa ai dati ufficiali dell’inflazione, vera e percepita, e chi si è impoverito, di fatto, con la moneta unica.
Se nel 2018 il 22% degli italiani, secondo un sondaggio commissionato da Sky, si dice ancora convinto di voler tornare alla lira, significa che un problema c’è, al di là del clamore scatenato dalle dichiarazioni del ministro delle Politiche Comunitarie, Paolo Savona, che ha evocato la possibilità che l’uscita dalla moneta unica possa essere decisa all’estero. A Berlino, a Francoforte a Parigi, non è chiaro.
Ma è chiaro che, senza voler riaprire vecchie ferite come ad esempio il tasso di cambio che a molti parve eccessivo (1.936,27 lire per un euro) perché proveniente da un regime fisso legato agli ultimi due anni di Ecu, e il dibattito che ne seguì sull’inflazione percepita, qualche calcolo aggiornato è fondamentale oltre che utile.
Le tabelle, già contenute in L’euro è di tutti, illustrano parecchie sorprese, che sono state anche citate nell’ultimo lavoro dell’Osservatorio Conti Pubblici guidato da Carlo Cottarelli.
Una ricognizione su cento prodotti e servizi, fotografati nel 2001 e rivalutati al 2014, ultimi dati disponibili, visto che negli ultimi anni l’inflazione è stata prima zero e poi molto bassa e le cose sono quindi cambiate poco, grazie agli appositi coefficienti dell’Istat per depurarli dall’effetto dell’inflazione, mostrano un andamento dei prezzi a due facce.
Se alcuni beni, come il francobollo, il compact disc e il burro hanno fatto registrare negli ultimi tredici anni riduzioni rispettivamente del 24, 15 e 12 prodotti, altri prodotti di largo consumo come lo shampoo o il biglietto del cinema sono rimasti di fatto invariati, altri hanno invece messo il turbo. Con due motivi di preoccupazione: non si tratta per nulla di prodotti marginali e, in molti casi, gli aumenti sono stati altissimi. Una semplicepizza margherita, è aumentata del 98 per cento (da 6.500 lire, pari oggi a 4,29 euro, è passata a 8 euro e mezzo); un chilo di pasta integrale è più caro del 79 per cento, un chilo di vitello in fettine del 69 per cento. Sul podio, non invidiabile, dei super aumenti, ci sono il cono gelato(+206 per cento dal 2001 ad oggi, il che forse spiega anche il boom delle nuove catene di rivendita), la penna a sfera (+188 per cento) e il caro, vecchio, tramezzino: lo spuntino per eccellenza costava solo 1.500 lire ed oggi lo si trova in media a 2,10 euro (+114 per cento). Non si vivrà di solo pane, ma milioni di italiani quello si possono permettere.
L’ingresso nella moneta unica per l’Italia è stato e resta un successo storico, ma se le rendite e le possibilità di investimento sono aumentate, grazie alla riduzione dei tassi d’interesse – e ne sanno qualcosa i milioni di italiani che hanno potuto acquistare una casa in questi ultimi anni, redditi da lavoro dipendente sono rimasti quasi al palo. E, per di più sono erosi dagli aumenti di spesa.
Le ultime statistiche lo confermano: mentre in dieci anni i poveri sono raddoppiati, negli ultimi dodici mesi coloro che in Italia hanno un patrimonio superiore al milione sono cresciuti quasi del 10%. Uno spread sociale spaventoso che non si riduce, anzi aumenta.
Ecco perché, in questi momenti di vuoto di reali politiche redistributive, ancora in molti hanno nostalgia della vecchia moneta.
A prescindere dal fatto che un ritorno alla lira, tra svalutazione, ridenominazione del debito pubblico e chiusure di partite correnti dei pagamenti, sarebbe un suicidio proprio che colpirebbe le classi più deboli, non si può far finta di niente.