Un accordo fantasma, quello della notte di San Pietro e Paolo, prende il posto di un’intesa concreta. Un’intesa fantasma che salva la faccia ai contendenti ma che potrebbe rivelarsi per l’Italia un boomerang se, come sottolineato da alcuni organi di stampa, nel nostro paese dovessero rientrare i circa 70.000 migranti che non hanno trovato una collocazione “secondaria” e in assenza di altri, si vedrebbero sospinti di nuovo verso la penisola, il loro approdo primario.
L’Europa che esce dal vertice a Bruxelles sembra di nuovo un complesso rompicapo a un passo dalla soluzione e ora smontato di nuovo come un puzzle nella fase iniziale. Che era stata anche incoraggiante. Perché il 19 ottobre scorso la Commissione Libertà Civili Giustizia e Affari Interni del Parlamento europeo aveva dato il primo via libera, con 43 voti favorevoli e 16 voti contrari, alla modifica del Regolamento di Dublino firmata dalla relatrice scandinava Cecilia Wikström. E questa decisione, che per essere ratificata necessiterebbe di un voto a maggioranza qualificata del Consiglio europeo perché non si tratta di un trattato, oggi, dopo il vertice notturno che l’ha trasformato in scelta da ottenere all’unanimità, appare ormai come l’unico treno utile (perduto) da prendere per cominciare a risolvere davvero il problema dell’accoglienza.
Il punto principale della riforma che non verrà era chiaro: i richiedenti asilo non sarebbero stati più obbligati a fare domanda di protezione internazionale nel primo paese d’approdo, mentre invece dopo la maratona del 29 giugno sembra che così si continuerà nei fatti.
Il meccanismo che tanto ha complicato la vita all’Italia potrebbe essere sostituito (ma il condizionale a questo punto è d’obbligo) da un sistema di ricollocamento – di fatto una redistribuzione permanente e automatica – a cui siano tenuti a partecipare obbligatoriamente tutti gli stati membri dell’Unione europea. Inoltre, la decisione del Parlamento europeo, a prima vista più concreta di quella sottoscritta dai 28 capi di stato e di governo, avrebbe tenuto conto, per la prima volta, dei legami familiari, con una nuova procedura accelerata di ricongiungimento. Fra le altre cose, il documento Wikstrom prevedeva anche il rafforzamento delle garanzie procedurali e gli obblighi di informativa per i richiedenti asilo, in particolare le salvaguardie per i minori non accompagnati tra le quali la nomina entro 24 ore di un tutore. Insomma, qualcosa di molto vicino ai dieci punti del governo guidato da Giuseppe Conte, presentati al meeting informale di domenica 24 giugno e apparentemente più incisivi del documento finale del vertice plenario di cinque giorni dopo dove si sottolinea genericamente che “i paesi devono prendere tutte le misure necessarie e collaborare strettamente tra di loro per contrastare i movimenti secondari”. L’Italia ottiene il risultato, anche avendo minacciato il potere di veto, di aver riconosciuto il suo ruolo fondamentale nel Mediterraneo, ma i risultati si dovranno valutare giorno per giorno, sbarco per sbarco.
Ottengono una vittoria chiara i paesi di Visegrad, restando fuori da ogni obbligo di accoglienza e la Turchia, che incassa la seconda tranche di aiuti dall’Unione Europea, mentre Francia e Germania salvano le apparenze e si rifugiano sulla base volontaria per risolvere i problemi, come proposto dalla cancelliera Angela Merkel (che ha annunciato un accordo con 14 paesi per ridistribuire gli immigrati che ha nei suoi confini tra cui ci sono tre quarti dei paesi di Visegrad, che nicchiano, la Spagna e la Grecia ma non l’Italia) , alchemia diplomatica che sembra una fragile tregua.
Anche perché quella scelta di fine 2017 dell’assise comunitaria resta la migliore e allo stesso tempo ora dimenticata, senza nessuno che ci abbia messo la faccia, come ha provato a fare il presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani. E soprattutto bloccata ora dal voto all’unanimità. Facile prevedere che la riforma di Dublino non si farà mai.
Come per la moneta unica, l’Unione Europea che esce ammaccata da uno dei summit più drammatici della sua storia, non ha una identità definita. Quella della Grecia? Scampata finalmente alla Troika, dovrà pagare interessi su un prestito di 274 miliardi ben oltre il 2060 e dopo aver cambiato quattro governi e fatto 450 riforme la povertà è raddoppiata. Dopo aver privatizzato tutto, il paese di Tsipras ha una magra consolazione: ha ancora qualche euro in tasca, per pagare i debiti. Non è proprio un testimonial efficace chi forse sarebbe stato meglio con la Grexit.
Se si volesse provare con la Germania si incontrerebbero problemi analoghi, ma di segno opposto. Troppa opulenza. Il paese della Merkel, mai così in difficoltà, dall’Ue e dall’euro ha avuto quasi tutto. Si è ripagata i costi mostruosi della riunificazione, ha incassato quasi 1.000 miliardi di capitali in arrivo grazie allo spread, dal deprecato Quantitative Easing ha ottenuto per la sua Bundesbank utili aggiuntivi per 2 miliardi di euro. Mentre il suo surplus vola incontrastato ben sopra il 7% del Pil, persino dal salvataggio greco ha guadagnato 2,9 miliardi di interessi.
Magari allora il vero profilo è quello dei paesi dell’Est Europa, che oggi crescono il doppio rispetto ai partner dell’eurozona grazie al fatto che hanno ricevuto più contributi comunitari dell’Ovest dopo aver assaggiato gli amari frutti del socialismo reale. Andrebbe anche bene, se non fosse che hanno stracciato col gruppo di Visegrad ogni traccia di solidarietà. Che invece un fondatore come l’Italia esercita da tempo, almeno dal 2015, avendo salvato con le sue navi un migrante su due nel Mediterraneo e essendo molto in debito sui ricollocamenti con tanti altri paesi come la Germania stessa (35% dei ricollocamenti effettuati soltanto), la Francia (24%), e la Spagna (14%). Peccato che il paese viva un paradosso: dopo anni di manovre per decine di miliardi, in dieci anni i poveri sono raddoppiati e i ricchi milionari sono cresciuti quasi del 10%. E il 70% degli italiani pensa che i movimenti anti-sistema possano rivoluzionare un’Unione che non gli piace più.
Sopravvissuta a crisi di ogni genere, l’Ue di oggi è quindi senza un volto e priva di personalità. Rimuove persino di aver trovato già le soluzioni nell’unico organismo elettivo, come quelle della commissione Wikstrom. I mesi che ha davanti saranno molto difficili, perché sulla questione dei rifugiati e degli immigrati economici si può consumare lo strappo finale ad ogni prossimo vertice. Questa volta in gioco non c’è qualche regola contabile o il Fiscal Compact, ma argomenti cruciali quali l’identità di una nazione, la difesa dei suoi confini, la cittadinanza. In pratica quel poco di sovranità che è rimasto in mano ai governi nazionali. Su tassi di interesse, opere pubbliche e politica economica, gli esecutivi hanno pochi margini. E così anche sulla lotta agli effetti della globalizzazione e la riduzione delle disuguaglianze. L’unica vera emergenza per tutti, mentre le capitali cercano di evitare il ritorno di un accordo boomerang sulla minaccia fantasma che viene dall’Africa.