Barbara Spinelli e altri 180 intellettuali di fama hanno firmato, lo scorso 4 novembre, un appello pubblicato su Il Fatto Quotidiano dal titolo Il silenzio della UE sulla crisi catalana mette in pericolo l’Europa. Gli autori, pur senza prendere posizione sul conflitto tra Spagna e Catalogna, lanciano un appello alla Commissione Europea affinché vigili e prevenga eventuali deviazioni dallo Stato di diritto in Spagna.

Quello che preoccupa gli estensori è in effetti, a loro dire, la brutalità e gli eccessi che hanno accompagnato la repressione spagnola del fenomeno indipendentista in Catalogna, a partire dallo smantellamento forzato dei seggi durante il voto, per arrivare al mandato d’arresto contro il presidente del (mai nato) stato catalano, Carles Puigdemont. Quello che è successo negli ultimi mesi a Barcellona e in tutta la Catalogna deve in effetti far riflettere, ma non solo nel senso indicato da Barbara Spinelli. Dall’immediato dopoguerra ad oggi abbiamo visto nascere e talvolta morire tantissimi movimenti indipendentisti di matrice regionale: basti nominare la Baviera negli anni ’50, il Fronte (armato) nazionale per la liberazione della Corsica negli anni ’70, il terrorismo pro indipendentista basco che non ha trovato soluzione fino agli anni ’90, e arrivando alla nostrana Lega Nord.

Alcuni Stati nazionali europei particolarmente deboli, è il caso del Belgio, sono stati lentamente consumati dall’interno dalla causa indipendentista regionale, mentre in altri casi è bastato garantire alcune autonomie fondamentali, soprattutto di natura economica, per riguadagnarsi la lealtà (o l’acquiescenza) dei cittadini alla causa nazionale. C’è un interessante e sottile filo rosso che lega il processo di integrazione europea all’indipendentismo regionale. Se infatti alla fine della seconda guerra mondiale i movimenti indipendentisti erano virtualmente inesistenti in Europa, oggi la loro portata e il consenso che radunano intorno a sé coinvolge potenzialmente le sorti di almeno un quinto dei cittadini europei.

In Italia a chiedere l’indipendenza non è solo la Lega per il Veneto e Lombardia, ma anche in Sardegna c’è un consenso che si stima intorno al 25% per la causa indipendentista, senza nominare lo storico Sudtiroler Volkspartei che sfugge totalmente alla collocazione politica nazionale. E se la Francia è stata scossa nel 2015 dalle istanze semi-indipendentiste del nuovo governo Corso, anche i Paesi europei dell’est hanno dovuto fronteggiare negli anni recenti la nascita di movimenti indipendentisti, come quello per le isole Aland in Finlandia o il movimento autonomista della Silesia in Polonia, che non sta facendo dormire sonni tranquilli a Varsavia visto il suo crescente consenso. Tutti i movimenti autonomisti, dai più piccoli come quello bretone con appena il 2% di voti a quelli più grandi, come quello catalano appunto, chiedono di essere riconosciuti su un piano di parità immediata con gli altri Paesi europei, garantendo ai propri cittadini gli stessi privilegi e diritti. Sono accumunanti quindi dalla ricerca di un riconoscimento della propria esistenza da parte dell’Unione Europea ancora prima che dallo Stato nazionale da cui vogliono la secessione.

È interessante notare che praticamente nessun partito indipendentista in Europa sia euroscettico, eccezion fatta per la Lega Nord che ha cambiato la propria linea politica con Matteo Salvini, passando dall’indipendentismo/europeismo di Bossi al nazionalismo/euroscetticismo dell’attuale segreteria. A tracciare un ulteriore collegamento tra integrazione europea e movimenti indipendentisti c’è il caso eclatante del Belgio. Il Paese, diviso storicamente tra valloni e fiamminghi, ha sperimentato un aggravarsi della crisi politica interna dal 2007 al 2014, tanto da rimanere per quasi due anni senza un governo legittimamente eletto. La città di Bruxelles sempre di più “capitale d’Europa” si ritrova così ad essere una sorta di isola dal resto del Paese, lontana dalle dispute regionali che ne sconquassano la struttura politica. Un articolo comparso in prima pagina sul celebre giornale tedesco Der Spiegel nel marzo 2011 titolava Belgium’s Political Crisis Foretells EU’s Future, ossia la crisi politica belga è solo l’antesignana del futuro europeo.

Secondo l’autore, esperto di politiche europee, la presenza delle istituzioni comunitarie a Bruxelles aveva così tanto saturato lo spazio politico nazionale da non far più giudicare conveniente a valloni e fiamminghi la convivenza in uno Stato nazionale che non poteva offrire nulla in più in termini di giustizia o difesa rispetto alle istituzioni dell’UE. Il Belgio quindi si trovava, almeno secondo l’autore, prima vittima della crescente importanza delle istituzioni europee su quelle nazionali. Questo potrebbe spiegare perché la fuga del leader catalano Puigdement a Bruxelles sia stata quasi un tentativo di ricercare la protezione delle istituzioni europee, più che della giustizia belga che teoricamente esercita la propria giurisdizione su quel territorio. E del resto la motivazione ufficiale della presenza del “presidente” e dei suoi ministri in Belgio è stata giustificata proprio come una “missione presso le istituzioni europee”. Questa premessa ci aiuta forse a capire un poco meglio la posizione di Barbara Spinelli e degli altri sottoscrittori della lettera indirizzata al Fatto Quotidiano.

Questa richiesta, così come i molti appelli indirizzati all’Unione Europea affinché districasse la crisi catalana, mira a responsabilizzare sempre di più le istituzioni comunitarie nel dirimere diatribe nazionali, sempre facendo leva sul fatto che in gioco ci siano i “diritti dei cittadini europei”. In nome di quest’idea di cittadinanza, che è nazionale ma anche europea (oggi chiunque sia cittadino di uno Stato membro è cittadino dell’Unione) può portare e sta portando ad una crescente confusione di competenze. Questa confusione è quello che spinge leader politici o intellettuali a chiedere l’intervento di Juncker, presidente della Commissione Europea o di Donal Tusk, presidente del Consiglio, nel far rispettare lo Stato di diritto e non per esempio della Corte di Strasburgo che dovrebbe essere deputata proprio a vigilare sul rispetto dei diritti civili, come quelli di riunione o di libera espressione. Si tenta quindi di forzare la Commissione a prendersi “cura dei suoi cittadini” per evitare che ne siano lesi i diritti fondamentali.

Quest’equivoco e questa ambivalenza tra cittadinanza nazionale ed europea è anche alla base degli stessi movimenti indipendentisti. Infatti chi potrebbe mai dubitare, si ragiona, del diritto dei cittadini catalani, veneti, tirolesi o bavaresi o di qualsiasi altra regione europea che voglia l’autonomia a vedere rispettati i diritti alla libertà di circolazione, il diritto ad un equo processo, il diritto a vivere in un Paese non minacciato da invasione o destinatario della solidarietà dei suoi vicini in caso di calamità? Che siano cittadini italiani e spagnoli oppure veneti o catalani non fa differenza, perché comunque non si può mettere in dubbio il diritto ad una cittadinanza, quella europea, che riconosce a livello internazionale la tutela dell’individuo e della comunità di riferimento. Purtroppo questo ragionamento è sbagliato, come la crisi catalana ci fa dolorosamente notare.

Altiero Spinelli, padre di Barbara, era solito dire che “l’Europa non cade dal cielo”, intendendo con questa espressione che la composizione di conflitti millenari all’interno della nostra Europea non è stato tanto un dono della Grazia Divina (non solo almeno) ma frutto di un lavoro che i governi europei hanno compiuto per decenni, con caparbietà e attraverso una politica dei piccoli passi che solo negli anni ’90 ha iniziato a dare frutti accettabili e riconoscibili dai cittadini. In quanto motori del progetto europeo però sono ancora gli Stati nazionali gli “azionisti di maggioranza” di questa nostra Unione Europea, fino a che non ci sarà un salto istituzionale di natura federale. Questo comporta che lo Stato di diritto interno ad ogni Stato membro è esattamente il perno e il punto di caduta dell’attuale Unione Europea. Senza di questo l’UE perderebbe di senso e di direzione. Quando i cittadini catalani pensano ad una possibile indipendenza nazionale e ai benefici che comporterebbe, soprattutto economici, non si interrogano sui costi immensi che richiederebbe creare un esercito catalano capace di difenderne i confini, una banca centrale per gestirne la moneta, o la necessità di aderire a degli accordi multinazionali o bilaterali con i suoi vicini. Insomma triste a dirsi ma, senza la Spagna, in Europa un cittadino catalano avrebbe gli stessi diritti di un qualsiasi cittadino extracomunitario (sempre che il suo governo sia riconosciuto come legittimo).

Barcellona, da vivace città europea, nota soprattutto per la sua vita artistica e giovanile, fuori dall’area Schengen diventerebbe ben presto una città marginale. E cosa potrebbe accadere all’economia di un Paese totalmente scardinato, da un momento all’altro, dall’intero commercio europeo? È meglio non chiederselo evidentemente, tanto che il sedicente governo catalano non solo non se lo è chiesto ma non ha informato neanche i suoi cittadini di questa probabile eventualità. Il tentativo di Puigdemont di europeizzare la crisi quindi con la sua fuga verso Bruxelles non può avere senso perché né Juncker, né Tusk e neanche la stessa Merkel possono cambiare la natura stessa e il funzionamento dell’Unione Europea dall’oggi al domani, sempre che vogliano farlo. Fino a quando l’Unione Europea rimarrà un’Unione tra Stati non c’è altra scelta che rispettare le scelte degli Stati membri e soprattutto riconoscerne le prerogative, in assenza di una legittimazione politica superiore. Non ci può sorprendere se, in Spagna così come in tutti gli altri Stati europei, la libertà di riunione o di parola sia subordinata al rispetto della costituzione.

È così ad esempio in Germania, dove la libertà di riunione è rispettata a patto che non violi il bando verso ogni partito neonazista, è così in Francia dove la libertà di parola è preclusa a chi inciti al razzismo o alla discriminazione, ed è così in tanti Paesi, molto diversi dai nostri dove tuttavia la costituzione stabilisce alcuni principi inviolabili (osservanze sociali, morali, di rispetto alla bandiera o alle forze armate). Quello che contraddistingue uno Stato di diritto – rule of law – da un “governo della legge” – rule by law –, usando la stessa definizione dell’appello lanciato a Il Fatto Quotidiano, non è solo il rispetto dei diritti fondamentali ma il rispetto del Diritto Fondamentale, ossia della costituzione. Il diritto costituzionale spagnolo è assolutamente in linea con i più alti parametri democratici e sconfessarlo non è d’aiuto alla causa europea. Se si vuole realmente un assetto diverso dell’attuale Unione Europea allora si lavori affinché si realizzi. Un’Europa federale potrà forse un giorno garantire le indipendenze regionali o locali senza che questo vada a ledere i diritti dei cittadini; ma demolire i tasselli fondamentali su cui abbiamo costruito quest’edificio per quanto imperfetto, ossia le costituzioni nazionali e il riconoscimento reciproco, senza aver pronto un modello alternativo rischia di portarci verso un vuoto normativo e un ulteriore sfaldamento del sistema, che in ultimo non farà altro che incoraggiare ulteriori fenomeni come quello catalano e creare un clima di incertezza del quale non abbiamo bisogno.