Ci sono almeno quattro modi di essere cittadini.
Quello semplice, di Aristotele: per essere cittadini basta vivere nella città. Poi il modello repubblicano di John Locke, per cui il cittadino è tale quando stipula un contratto con lo Stato in cui cede poteri in cambio di servizi. Il regime rivoluzionario dei repubblicani francesi, che nel 1793 all’interno della Costituzione concesse la cittadinanza ad ogni straniero che avesse vissuto almeno un anno in Francia. E infine la tesi di Jurgen Habermas, quella dell’autodeterminazione.
Nella cittadinanza europea possiamo dire che esistono un po’ tutti e quattro i modelli, per questo essa è la più bella e al tempo stesso la più complessa in natura. Reclamiamo il diritto di cittadinanza e al tempo tesso vorremmo estenderlo a chi arriva da altri confini con i dovuti distinguo e accorgimenti. Ampliamo i confini dell’Unione ma non riconosciamo le spinte indipendentiste che superano la barriera degli Stati nazionali. Tendiamo la mano al diverso da noi, ma poi lo lasciamo in preda al suo destino nelle strade delle nostre città. Senza diritti e senza futuro. Come senza diritti e senza futuro vivono nel nostro paese 800.000 studenti, nuovi apolidi del millennio. Eppure, abbiamo costruito qualcosa di unico: la pace dopo la guerra, senza ancora passare per una federazione. Il percorso è stato faticoso ed è ancora in corso.
Quello che segue è quanto siamo in grado di garantire oggi, a norme vigenti, a chi vive e arriva in Europa.
All’interno dell’Unione Europea, dove proliferano gli effetti di disaggregazione, i privilegi dell’appartenenza politica spettano a tutti i cittadini degli Stati membri, anche se residenti in territori diversi da quelli della loro nazionalità. Non è più la nazionalità d’origine a definire l’identità del cittadino ma la stessa cittadinanza europea che conferisce il titolo ad avere questi diritti. È accaduto con la libera circolazione delle persone. Èaccaduto che non solo le frontiere siano venute meno, ma che ci sia stata una cessione di sovranità straordinaria, un effetto che si da’ ormai per scontato e che le giovani generazioni hanno direttamente introiettato nel loro Dna. Ma non era scritto che così fosse.
Come non è ancora scritto da nessuna parte e in nessun trattato a cosa invece abbiano diritto i rifugiati, gli immigrati, gli apolidi. I cittadini dell’Unione Europea possono votare e candidarsi in elezioni locali nei loro paesi ospiti, se sono residenti a lungo termine in un altro paese dell’Unione, in generale hanno anche diritto ad un insieme equivalente di diritti e benefici sociali. La condizione dei cittadini di paesi terzi che non appartengono all’Unione Europea è invece naturalmente differente, ma qualche passo in avanti si sta facendo. In Olanda, Svezia, Danimarca e Finlandia, i cittadini di paesi terzi possono partecipare alle elezioni locali e regionali; in Irlanda questi diritti sono garantiti solo a livello locale; nel Regno Unito, i cittadini del Commonwealth possono votare anche alle elezioni nazionali.
La conclusione più importante che si può trarre, ha scritto Seyla Benhabib, è che il riconoscimento dei diritti non dipende più dallo status di cittadino, o quanto meno non automaticamente. Basta essere uno dei 500 milioni di abitanti dell’UE. Basta esercitare uno Ius Soli europeo, che ricorda molto quello dell’impero romano per tutti gli uomini liberi, per dirsi cittadini. Certamente, molto si deve fare ancora. I rifugiati e i richiedenti asilo hanno diritto a certi tipi di cure mediche, in alcuni casi i loro figli possono andare a scuola. Gli immigrati senza documenti sono invece tagliati fuori dai diritti e dai benefici.
L’Unione Europea, proprio ora che vive un’ondata di neonazionalismi, è quindi stretta in un corridoio, per meglio dire, in un vero conflitto, tra sovranità e ospitalità. Da una parte, vige un regime di giustizia cosmpomolitica, per ciò che riguarda il trattamento di coloro che si trovano all’interno dei suoi confini, mentre la sovranità viene di nuovo eretta per tutti coloro che sono fuori da essi.
All’interno del mercato comune, poi, la nazionalità è del tutto abbattuta, anche se emergono problemi di grande rilevanza per quanto riguarda il concetto che si ha di se stessi nel mondo digitale. Si può essere cittadini europei ma si può cadere in restrizioni, discriminazioni, pregiudizi. Come ha scritto Michele Ainis, «la libertà di manifestazione del pensiero rappresenta la pietra angolare dei diritti dal 1969 ma la questione dirimente oggi non è quella di garantire la circolazione delle idee, bensì la “loro formazione, la loro genuina concezione.»
Se in apparenza i social media consentono a chiunque di esprimersi liberamente e di confrontare le proprie idee, potenzialmente con chiunque, gli stessi strumenti digitali possono in realtà restringere il confronto libero di idee. E da cittadini si diventa ospiti di un piccolo condominio virtuale.
«Pensiamo di pensare», ragione il costituzionalista, «ma in realtà ripetiamo come pappagalli i pensieri altrui. O al limite anche i nostri, però amplificati e deformati, senza verifiche, senza alcun confronto con le opinioni avverse. È l’universo autistico in cui siamo rinchiusi, anche se per lo più non ci facciamo caso.»
Succede tutto ciò perché, quando navighiamo online, siamo esposti ad informazioni “filtrate”. Tutto ha avuto inizio il 4 dicembre 2009, quando Google avvertì i propri utenti che da allora in poi avrebbe personalizzato il proprio motore di ricerca. Significa che i risultati cambiano a seconda delle ricerche precedenti, del computer da cui stiamo interrogando Google, del luogo nel quale ci troviamo.
Non siamo più noi a fare la ricerca ma è la ricerca a indurre le nostre riflessioni, i nostri bisogni, esercitando i nostri diritti. Anche quelli identitari.
Succede quindi che in mancanza di uno Stato che garantisca la nostra cittadinanza, perché ormai è l’appartenenza all’Unione Europea a decretarne la vidimazione, possano intervenire degli organismi, pensiamo al ruolo delle Autorità Antitrust, a tutelare l’esercizio di un diritto che potremmo chiamare “di comunità”. Si arriva al paradosso che i nostri diritti, in Europa, di consumatori siano tutelati, mentre quelli di cittadinanza, non trovino ancora spazio nei Trattati, o meglio, in una vera Costituzione.
Nell’Unione di oggi, ai sensi delle tante leggi economiche in vigore, il consumatore ha preso il posto del cittadino. Il mercato si è sostituito alla polis. La rete funge da agorà digitale. E nella rete non ci sono primazie di cittadinanza.
Oggi la tirannia del digitale può quindi sembrare un limite alle nostre libertà individuali. Domani potrà diventare l’unico vero passaporto, che supererà o forse già oggi supera, gli steccati UE ed Extra UE, la divisione tra cittadini e non cittadini, la separazione tra tutelati e non tutelati.
Servirà accortezza da parte delle autorità che questi diritti devono garantire. Servirà una crescita consapevole di tutti coloro, in special modo i giovani, devono preservare la libera manifestazione del pensiero indenne da condizionamenti. Servirà una grande scuola di cittadinanza trasnazionale, che vada oltre gli steccati delle nazioni e tragga forza proprio dalla sua universalità.
Per fare questo, l’Europa, con le sue regole e le sue salde e garanzie di democrazia, avrà un ruolo fondamentale, sia nella difesa di un mercato più ampio, giusto e accessibile a tutti, sia nella consacrazione definitiva dei doveri di accoglienza quanto dei diritti di cittadinanza.
Così arriveremo al quinto modello di cittadino: colui che può esercitare un diritto nel mentre gli viene garantito.