Secondo il filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt una costante della storia dell’umanità è sempre stata l’ ancestrale divisione tra il mare e la terra ferma. Secondo gli antichi il mare, all’epoca percepito come vasto, infinito e misterioso, era dominato da forze non umane: le sirene, i mostri marini, il capriccio di Nettuno che per anni portò Ulisse a vagare nel mediterraneo. Al contrario la terra era il dominio dell’uomo, lo spazio in cui vigevano le sue leggi e che gli essere umani potevano plasmare. Per questo motivo le leggi del mare sono sempre state, in ogni luogo e in ogni tempo, diverse da quelle che erano applicate sulla terra. Una caratteristica delle leggi del mare è che tendenzialmente sono universali: se a delimitare le leggi umane c’è un confine come regolarsi su uno spazio di nessuno, sospeso apparentemente nel tempo e nello spazio? La questione è centrale per comprendere la gestione del fenomeno migratorio. Qui si intrecciano tre temi fondamentali: la sicurezza e la stabilità sociale dei Paesi di arrivo, la sicurezza e la stabilità politica dei Paesi di partenza e infine ciò che accade nel mare, in quella terra di nessuno tra due spazi politici e culturali. Nei Paesi di arrivo o di transito (la distinzione non è poi così netta) gli interessi nazionali confliggono all’interno di quel grande spazio regolamentatore e negoziale che è l’Unione Europea. L’interesse di tutti i governi è avere un flusso migratorio controllato, capace di accogliere (se vogliamo vedere il lato umano) e di tenere in moto l’economia attraverso l’introduzione di mano d’opera a basso costo (se preferiamo quello cinico). Questo però deve avvenire senza subire le inevitabili ricadute negative provenienti da un flusso incontrollato di persone percepite come estranee e capaci di sconvolgere la vita di intere città e regioni europee: la stessa Germania, paladina dell’accoglienza, è rimasta così impressionata dai fatti di Colonia da voler ora invertire la tendenza. La soluzione al dilemma potrebbe essere quella di rivedere il regolamento di Dublino che regolamenta la gestione dei flussi migratori. L’idea sostenuta dalla Commissione è quella di chiedere a tutti i Paesi europei, e non solo a quelli di arrivo come Italia e Spagna, di ospitare i centri di identificazione ed espulsione per i nuovi arrivati. Lo scetticismo degli altri governi del continente è comprensibile: in Italia tutti ci siamo accorti di quanto sia difficile gestire questi centri una volta installati, identificando i clandestini senza violare i diritti umani e impedendo la creazione di enclave di degrado all’interno di tessuti sociali già fragili. L’immagine di un’Europa dove una massa di persone viaggia su treni imbottiti da un centro di identificazione ad un altro richiama momenti poco costruttivi della nostra storia. Allo stesso tempo permettere a milioni di persone assolutamente anonime di girare indisturbate per il territorio europeo è inaccettabile per qualsiasi Stato moderno. Al momento spagnoli e italiani stanno garantendo all’Unione ciò di cui ha bisogno, esattamente quel flusso migratorio controllato (più o meno) che gli altri ci chiedono. Questo al prezzo di enormi sacrifici politici e sociali. Per uscire da questa impasse una terza opzione tentata dal governo italiano, sembra con uno scarso supporto da parte della Commissione Europea, è quella di responsabilizzare il governo libico di Tripoli per installare in loco dei centri di identificazione sotto la supervisione europea, di modo da scoraggiare il traffico di esseri umani e al contempo rispettare i diritti fondamentali. E qui veniamo alla seconda nota dolente di questo intricato intreccio, i due governi libici. Anche qui il dato è complesso: due governi che si affrontano, a tratti militarmente, e che rivendicano il controllo dell’intero Paese. La divisione tra questi due governi non è solo politica ma anche etnico-regionale: uno è il governo della storica regione della Cirenaica e l’altro della Tripolitania. Sono due regioni con caratteristiche etnico-culturali diverse e che fino a Gheddafi sono state unite solo dall’amministrazione coloniale italiana; sono regioni anche eterogenee al loro interno, cosa che rende la ricostruzione di una Libia unita molto lenta e difficile. L’Italia preferisce collaborare con il governo di Tripoli mentre l’Egitto sostiene quello della Cirenaica con capitale Tobruk. Questo fa pensare che ogni accordo preso con una sola delle parti possa risultare sul lungo periodo insufficiente, se anche l’altra non è coinvolta. Il pugno duro che l’Italia e il governo di Tripoli stanno avendo con le Ong, con la sottoscrizione del famoso codice di condotta europeo da parte di Roma e la minaccia della guardia costiera libica alla nave spagnola ProActiva, riflette quest’incertezza politica e la necessità di rafforzare l’autorità del governo libico. Tra tutte queste questioni, di natura squisitamente umana com’è ovvio, c’è il mare. Ed è proprio il mare, incredibilmente, che è al centro della disputa più accesa. Delle leggi di assoluto buon senso vengono in questo contesto distorte a uso e consumo degli attori di questo miserabile spettacolo internazionale. Le Organizzazioni Non Governative che si sono adoperate tutta l’estate per il salvataggio dei migranti e che li hanno portati costantemente nei porti siciliani, quando non dirottate altrove per il flusso incredibile che l’isola ha dovuto subire d maggio scorso, l’hanno fatto perché hanno identificato nei porti italiani “i primi porti sicuri”. Probabilmente chi ha coniato la definizione di “porto sicuro” nel diritto marittimo si immaginava un porto “insicuro” vittima di un epidemia, di un terremoto o di una battaglia. Nulla di tutto questo accade nel porto di Tripoli, per esempio. Allora perché il porto più sicuro non è quello vicino alla partenza, ma uno dalla parte opposta del Mediterraneo? Questa è una valutazione politica delle stesse ONG, che considerano il governo libico come tirannico, nonostante sia stato riconosciuto dalla Comunità internazionale e guidato da un politico democratico, il presidente Al Sarraj. Il risultato di questa valutazione è che l’Italia, pur se accusata dal Consiglio Onu per i diritti umani di non rispettare alcuni diritti fondamentali dei migranti, resta a giudizio delle Ong il Paese migliore dove portarli. Altro esempio può essere la legge del mare che obbliga, in caso di naufragio, la nave più vicina ad intervenire. L’interpretazione, anche in questo caso, è che si debba essere vicini per intervenire, e quindi che sia lecito fare di tutto pur di avvicinarsi alle imbarcazioni in difficoltà prima che siano in difficoltà e talvolta prima che siano imbarcazioni. Allo stesso modo l’interpretazione della legge del mare da parte italiana è mirata ad un sostegno politico al governo libico visto come legittimo, nonché ad un tentativo di trovare una terza soluzione in un quadro sicuramente ingarbugliato. Per l’Italia la nave deputata ad intervenire dovrebbe essere sempre, nel migliore degli esiti almeno, quella della guardia costiera libica.
Ecco quindi che le leggi del mare vengono piegate a seconda delle opportunità e delle contingenze, come fossero il riflesso sull’acqua di ciò che avviene sulla terra ferma. Il tentativo di tutti gli attori coinvolti sembra essere quello ipocrita di piegare le leggi del mare a dei problemi politici, creando dei pericolosi precedenti, invece di agire sulla terra ferma dove quei problemi hanno origine.
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