L’Italia conta nel mondo? Un po’ più di prima sì. Anche perché torna all’antico
Uno dei vizi italici che non perdiamo, neanche nel passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica, è l’evocazione del peso internazionale del Paese come arma nelle polemiche di politica interna. Consolidato argomento d’attacco da parte del centrosinistra contro Berlusconi, ora lo sentiamo risuonare da destra (e non solo) contro il governo Renzi: l’Italia che non conta niente, l’Europa che ci ignora e ci maltratta, l’esclusione dai summit e dai momenti che decidono davvero, gli interessi nazionali calpestati.
Viceversa, uno dei pilastri della scalata di Renzi a palazzo Chigi, refrain soprattutto dei suoi primi mesi da premier, è stata appunto la rivendicazione di un riscatto italiano dopo gli anni della sudditanza e della subalternità culminati con il “commissariamento” (o auto-commissariamento) dell’autunno 2011. Riecheggiano ancora – e del resto Renzi non ha mai smesso di tornare sul tema – le parole di sfida alla tecnocrazia di Bruxelles con le quali il presidente del consiglio rafforzava la propria posizione per un cambio di rotta nelle politiche comunitarie, e modellava la propria immagine agli occhi degli italiani.
Questa linea di condotta ha sicuramente funzionato per tutto il primo periodo. Innanzi tutto ha contribuito seriamente al successo elettorale europeo del 2014, quando Renzi e il Pd assursero improvvisamente addirittura a modello vincente – studiato e invidiato in tutte le capitali dell’Unione – di come si potesse resistere e reagire all’ondata populista antieuropea che è il più clamoroso fenomeno politico di questa epoca.
A partire dalla prova di forza di quelle elezioni europee, il governo ha cercato di investire il credito riguadagnato nelle estenuanti trattative comunitarie sui vincoli di bilancio, nei faticosi tira-e-molla tra rigore e flessibilità che dovrebbero dare all’Italia qualche piccolo ma essenziale margine aggiuntivo per gli investimenti. E’ un tema di stretta attualità, per esempio a proposito dei rapporti con la Commissione Juncker sulla clausola legata all’accoglienza degli immigrati; o delle tensioni sul decreto salva-banche.
E’ una partita ancora aperta, ammesso che possa chiudersi mai finché non si deciderà finalmente di rimettere mano ai Trattati sul fiscal compact.
Nel frattempo, però, alla guerra delle parole e delle lettere d’intenti si è prepotentemente sostituita una guerra assai meno metaforica.
In questa fine di 2015 il peso dell’Italia non si misura più nelle polemiche da Transatlantico e nelle beghe da corridoio di Bruxelles, bensì nei drammatici tentativi di tenere più lontana possibile la concretissima sanguinosa minaccia rappresentata dalla Jihad del Daesh. Il gioco diplomatico perde ogni traccia di fatuità e diventa anzi la partita decisiva per la sicurezza del Paese e dei singoli cittadini, ognuno possibile bersaglio della strategia del terrorismo casuale applicata da Daesh nelle strade di Parigi.
Allora la domanda “quanto conta l’Italia?” cambia di significato e di peso. E si articola subito in una domanda più complessa: l’Italia è riuscita a focalizzare l’attenzione del mondo sul gigantesco rischio che il Califfato sposti il proprio quartier generale dalle rocce della Siria e dell’Iraq alle spiagge e alle città della vicinissima Libia?
Posta all’immediata vigilia del vertice straordinario sulla Libia convocato dal ministro Gentiloni a Roma, col sostegno di Usa e Russia, la domanda parrebbe avere proprio in questi giorni una risposta positiva. Renzi ha predicato per mesi sull’emergenza libica, in ogni occasione formale e informale, finché l’eccidio di Parigi e il rafforzamento degli jihadisti di Sirte hanno dato ragione alle sue richieste. La stampa anglosassone ha fatto il resto con inchieste sull’espansione del controllo territoriale del Califfato; l’arrivo dei fanatici di Baghadi in una capitale dell’Unesco come Sabrata ha spaventato il mondo; il fallimento della missione Leon ha chiuso alcune ipotesi di soluzione tra i due opposti “governi libici” che erano sembrate per alcuni mesi a portata di mano.
Ovviamente un summit come quello romano ha margini di successo relativi. Figurarsi, per molti osservatori perfino il G20 di Antalya, proprio a ridosso della strage del Bataclan, si è risolto in un nulla di fatto nonostante si trovassero lì faccia a faccia, in un momento ad alta tensione emotiva, tutti i big da Obama a Putin, da Erdogan a Cameron, compresi i sauditi ripetutamente chiamati in causa per l’ambiguità della loro posizione sul Daesh.
Diversamente da Antalya, e dalla discussione sul fronte comune da creare nei cieli di Siria e Iraq, a proposito di Libia non è all’ordine del giorno un’opzione militare. Almeno per adesso. Del resto, se è vero che Renzi si è chiamato fuori dal dispiegamento dei jet occidentali in Siria dicendo di non volere “un’altra Libia” (inteso come bis della guerra fatta a Gheddafi nel 2011), è decisamente improbabile che l’Italia desideri vedere “un’altra Libia”… in Libia.
Per ora l’urgenza è mettere d’accordo gli opposti parlamenti di Tobruk e di Tripoli, impresa titanica (si rifanno entrambi a potenze regionali fra loro ostili come Egitto e Arabia Saudita da una parte, Turchia e Qatar dall’altra) ma forse prossima, visto l’annuncio della stipula di un patto di unità nazionale da siglare addirittura nei prossimi giorni, il 16 dicembre.
Dovesse davvero realizzarsi questo obiettivo intermedio (la cui efficacia sarebbe tutta da verificare e controllare), almeno una parte di merito andrebbe sicuramente ascritta all’insistenza del governo italiano, il più motivato fra tutti quelli occidentali. Anche perché è stata una manovra fatta non solo di parole, ma anche di fatti non irrilevanti che hanno riposizionato Roma nello scacchiere internazionale ridandole con ciò un ruolo.
La mossa più vistosa e inattesa di tutte: la decisione di Renzi di fermare la proroga delle sanzioni europee alla Russia per il conflitto con l’Ucraina. Uno scarto rispetto alla linea della maggioranza della Ue; un passo verso Mosca compiuto forse anche con placet degli americani che non possono (ancora) farlo; un proporsi implicitamente come avanguardia di altri paesi europei silenziosamente sulla stessa posizione (Austria, Ungheria…). Insomma, la mossa di un Paese che almeno sulle questioni nel mare di casa, dopo le euro-delusioni subìte sul tema immigrati, vuole tornare a “contare”.
Che poi il proporsi come staffetta tra Russia e Usa, e come paese dialogante e poco belligerante agli occhi del mondo arabo, siano entrambi riproposizioni di null’altro che della tradizionalissima politica estera italiana da Andreotti a Berlusconi, questo è un altro discorso. Interessante, però.