di Amedeo Costabile.

La Fièvre. É il titolo di una popolare serie tv francese andata in onda nei mesi di marzo e aprile scorsi, la cui protagonista è una spin doctor di estrema destra che soffia sull’odio e sulle divisioni identitarie e sociali, finendo per condurre il suo paese sull’orlo di una guerra civile. Ad ispirare il titolo, La Febbre, come racconta il regista Éric Benzekri, è il grande testamento di Stefan Zweig Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo. Un libro che l’autore austriaco iniziò a scrivere a partire dal 1939, nel momento in cui l’Europa, patria di elezione del suo cuore, scelse il proprio suicidio. “Non ho mai amato la nostra vecchia terra – scrisse Zweig – più che in quegli ultimi anni prima della guerra; non ho mai sperato così tanto in un’Europa unita, mai ho creduto più di tanto al futuro del nostro continente, come in quei giorni in cui credevamo di assistere a una nuova aurora. Quei bagliori erano invece le prime avvisaglie dell’enorme incendio che stava per abbattersi su di noi”. Zweig si convinse che l’Europa fosse giunta alla sua fine, che fosse perduta per sempre e questo lo gettò in una disperazione tale che, dopo la consegna del suo dattiloscritto nel 1942, si suicidò insieme alla moglie.

Il libro, prima di ispirare la fortunata serie televisiva, era già tornato in un certo senso di attualità all’inizio del secondo decennio del nostro secolo. Non solo per via della pubblicazione della nuova traduzione inglese, ma anche perché, come scrisse il romanziere austriaco Daniel Kehlmann, la sua popolarità diceva “molto della nostra epoca, delle nostre paure, della nostra sensazione che forse qualcosa sta andando irrimediabilmente verso la fine”. Il successo del libro infatti ha seguito di pari passo le ondate di crisi che si sono succedute in Europa negli ultimi vent’anni. A partire dalla bocciatura della Costituzione europea del 2005, si è passati alla crisi finanziaria e all’occupazione di alcuni territori della Georgia da parte della Russia nel 2008, per proseguire con la tragica vicenda di “Charlie Hebdo” e l’occupazione della Crimea nel 2014, e poi ancora: la crisi europea dei migranti nel 2015, la Brexit nel 2016, la pandemia nel 2020, l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, capace di risvegliare fantasmi di una guerra che l’Europa aveva censurato per sempre, per finire al terremoto delle elezioni europee del 2024, in cui gli eredi dei collaborazionisti di Vichy del Fn in Francia, i nazionalisti di Afd in Germania e in Italia il partito postfascista Fratelli d’Italia, con la loro affermazione elettorale, hanno scosso alle fondamenta l’Unione europea, aprendo scenari inediti come vediamo in Francia. Tutto ciò può essere definito con il titolo di un fortunato volume pubblicato a Berlino nel 2017, ovvero la Grande Regressione. Essa si inserisce in quel fenomeno a cui Bauman ha dato il nome di retrotopia, intitolando così l’ultimo suo libro pubblicato postumo. Il grande sociologo polacco intuiva infatti come da diverse parti le crisi economiche e sociali di inizio millennio facevano riporre le speranze di miglioramento non più in un futuro, ritenuto sempre più incerto e palesemente inaffidabile, ma nel ricordo di un passato mitizzato verso cui ritornare.

Siamo sull’orlo di una nuova fine dell’Europa? Sicuramente quella che vediamo messa in discussione davanti ai nostri occhi è la fine di una certa idea di Europa, come un’anatra zoppa che si è retta su un unico pilastro realmente comunitario, quello economico e tecnocratico. Pur avendo fatto compiere importanti passi avanti al processo di unificazione europeo, sia nell’approfondimento dell’integrazione (vedi mercato unico e moneta unica) che nell’ampliamento dei suoi confini (vedi progressivo allargamento), questo progetto non è però mai riuscito a scaldare i cuori dei popoli e soprattutto, davanti agli shock di inizio millennio, ha finito per spingere ampi strati della società civile europea, alla ricerca di sicurezza e protezione, nelle mani di uno Stato nazione ritornato geloso della sua sovranità. Un problema che già De Gasperi denunciava nel 1951: “Se noi – diceva lo statista trentino – costruiamo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali si incontrino, si precisino e si animino in una sintesi superiore, noi rischieremo che questa attività europea appaia al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale”. Del resto, lo stesso padre dell’Europa unita, Altiero Spinelli, non hai mai nascosto le sue critiche verso quella tendenza tecnocratica nel processo di integrazione che “scambiava l’efficienza esecutrice del potere amministrativo con la creatività del potere politico”.

Lo stesso giudizio lo ritroviamo molti anni dopo in un grande eroe dei nostri tempi, Václav Havel, convinto europeista, il quale negli anni Novanta mise in guardia l’Unione europea da un certo efficientismo razionalistico che l’avrebbe resa nell’epoca della globalizzazione una grande promotrice di regole e di commerci. Nel 1994 il grande dissidente cecoslovacco disse al Parlamento Europeo che leggere il trattato di Maastricht era stato come “osservare i meccanismi di una macchina assolutamente perfetta e immensamente ingegnosa”. Per affermare in modo icastico: Maastricht parlava “alla mia testa non al mio cuore”. Nel 1999, rivolgendosi al Senato francese, dopo aver applaudito ai progressi nell’unificazione, aggiunse: “Non riesco a scacciare la sensazione che si tratti di un viaggio iniziato nel passato, in un’altra epoca e in circostanze diverse, e che prosegue senza ricevere energie nuove, impulsi spirituali nuovi, una rinnovata consapevolezza della direzione e dello scopo del viaggio”.

Viene in mente Helmut Kohl, artefice della riunificazione tedesca e del rilancio europeo seguiti alla caduta del muro di Berlino, consapevole nei primi anni Novanta della necessità di creare una unione politica da affiancare all’unione economica e monetaria. L’Unione europea invece con il Trattato di Maastricht nacque su tre pilastri, di cui solo quello economico realmente comunitario. Gli altri due, la Giustizia e gli Affari interni e la Politica estera e di sicurezza comune, vennero costituiti sulla base del metodo intergovernativo che di fatto impedì una vera unione politica, lasciando l’Europa un’anatra zoppa.

L’Europa, così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 70 anni, ha parlato alla testa e non al cuore, apparendo distante dai cittadini e fredda in un momento storico di ripetute ondate di crisi economica, sociale e politica: questo è alla base del grande rifiuto a cui assistiamo. Davanti al ritorno dei nazionalismi, che rischia di mettere fine alla civiltà europea, è necessario allora un rapido rilancio della costruzione europea, nel momento appunto in cui tutto l’enorme lavoro di questi settant’anni rischia di essere messo in discussione.

Torniamo così alla Febbre da cui eravamo partiti. Agli inizi del 1939 Stefan Zweig cominciò a scrivere il suo testamento: “A poco a poco divenne impossibile scambiare parole ragionevoli con chiunque; i più pacifici, i più eleganti, erano intossicati dai fiumi del sangue; amici che avevo sempre conosciuto come determinati individualisti si trasformavano in fanatici patrioti. Tutte le conversazioni finivano in crude accuse, e da quel momento in poi c’era una cosa sola da fare: ritirarsi e tacere finché durava la febbre”. Anche oggi nel nostro continente, e non solo, i vecchi liberali ridiventano “patrioti”, in un momento storico in cui riemergono fantasmi, come l’antisemitismo, che credevamo seppelliti per sempre nei cimiteri d’Europa.

Ma il punto di caduta questa volta è molto più in alto che nel 1939, e prima di atterrare ce ne passa! Le nostre istituzioni democratiche sono ancora solide, veniamo dal più lungo periodo di pace nella storia del nostro continente che non vogliamo perdere e in più abbiamo un’istituzione europea sovranazionale che costituisce un argine alle derive autoritarie, come vediamo dal rifiuto di aperture ai partiti nazionalisti. Si può allora invertire il ciclo negativo e riprendere il cammino, ma urge una direzione nuova, fondata non solo sull’individuo materiale prevalentemente economico, ma sul bene della persona umana, intesa come un tutto sia materiale che spirituale, capace, secondo la sua ontologia più profonda, di comprendersi in relazione con l’altro, senza erigere muri. Solo questa visione è in grado di scaldare i cuori e rispondere alle esigenze più profonde dei cittadini europei. La strada c’è già ed è quella tracciata dai padri: “Consiste – diceva Churchill a Zurigo nel 1946 – nel ricostruire l’edificio europeo, o per quanto più è possibile, e nel dotarlo di una struttura in cui esso possa vivere in pace, in sicurezza e in libertà. Dobbiamo costruire una forma di Stati Uniti d’Europa. Solo in questo modo centinaia di milioni di lavoratori potranno riacquisire le semplici gioie e le speranze che rendono la vita degna di essere vissuta. Il cambiamento è semplice. Tutto ciò che occorre è la risoluzione di centinaia di milioni di uomini e di donne di agire bene piuttosto che male e di meritare la ricompensa di essere benedetti invece che maledetti”.

La battaglia è appena cominciata!